Il buddhismo
in Bhutan
Matteo Miele
Università degli Studi di Firenze
Center for Southeast Asian Studies,
Kyoto University
In Bhutan la religione principale è il
buddhismo tibetano, nato all’interno del buddhismo mahayana, ovvero il
“buddhismo del grande veicolo”. Circa cinque secoli prima della nascita di
Cristo, Siddhartha Gautama, il figlio del capo di una repubblica aristocratica
nel nord dell’India, lasciava il palazzo del padre, dove aveva vissuto solo di
agi e si avviava alla ricerca dell’illuminazione, per rompere il ciclo di
nascite e morti ed entrare dunque nel Nirvana. Raggiunto lo scopo, divenne il
“Buddha”, l’illuminato. Chi voleva seguirlo doveva, come egli aveva fatto,
abbandonare la famiglia, ritirarsi nella foresta e diventare un monaco. Chi non
aveva il tempo o la voglia, poteva sempre sperare in una vita
successiva.Qualche secolo più tardi, circa duemila anni fa, sempre in India,
alcuni buddhisti cominciarono a riflettere sulla possibilità di nuovi percorsi,
meno rigidi, per raggiungere lo stesso obiettivo, magari con l’aiuto di
qualcuno. In realtà, dicevano, non c’era nessuna novità, ma erano altri insegnamenti
dello stesso Buddha. Alla lingua pali preferivano il sanscrito. Secondo loro,
raggiunta la soglia dell’illuminazione, c’era l’occasione di scegliere di
restare, o meglio, di tornare nel mondo per aiutare gli altri a fare ciò in cui
loro erano riusciti. Queste persone sono chiamate Bodhisattva.
All’interno del buddhismo si crearono
così due grandi rami, il buddhismo del grande veicolo e quello del piccolo
veicolo, hinayana, come lo chiamavano, con poca simpatia, i seguaci del primo.
In realtà l’hinayana era il più antico ed è oggi diffuso in Sri Lanka,
Cambogia, Laos, Thailandia, Birmania e in qualche altra parte in Asia. Ma tra
di loro preferiscono chiamarlo theravada (insegnamento degli anziani), perché
quello è il nome dell’unica scuola sopravvissuta.Dall’altra parte dell’Asia,
invece, verso nord, si diffuse il buddhismo mahayana. Ve lo immaginate un
cinese, formato nell’etica confuciana, dove i pilastri si ritrovano nella pietà
filiale, nel rapporto padre-figlio e nel culto degli antenati, abbandonare ogni
legame con la famiglia? Nel Celeste Impero, ma anche in Corea, Giappone e
Vietnam, paesi impregnati di cultura cinese, si diffusero gli insegnamenti del
Grande Veicolo.
Anche in Tibet, e poi tra i mongoli,
si diffuse il buddhismo mahayana. Secondo la tradizione, la prima comparsa (poi
ce ne fu un’altra) in Tibet risalirebbe a circa millequattrocento anni fa, con
il re Songtsen Gampo che aveva sposato una cinese ed una nepalese e che poi si
convertì al buddhismo. In realtà, tra gli storici ci sono molti dubbi sulla
moglie nepalese, ma i tibetani preferiscono affiancare una sposa non cinese a
questo importante sovrano. Anche la sua conversione sarebbe dubbia: però, nella
storia antica di questi posti, quasi tutto ha anche una versione leggendaria.
Ciò che molti tibetani credono fermamente è che, risalendo all’indietro le
incarnazioni dei Dalai Lama, si ritroverebbe anche Songtsen Gampo e persino lo
scimmione che, sempre nella tradizione, sarebbe all’origine del popolo
tibetano. È ovviamente un’interpretazione politica di resoconti religiosi, data
dalla scuola dei berretti gialli, la scuola a cui appartiene appunto il Dalai Lama, fondata circa
sei secoli fa da Tsonkhapa. La scuola si ritrovò presto a lottare per il potere
con le scuole più antiche (dette dei berretti rossi), ma anche con i superstiti
della religione bon, la religione più antica del Tibet. I gialli vinsero e i rossi
persero. Il Dalai Lama, capo dei Gelugpa (questo il nome tibetano della scuola)
si ritrovò ad essere anche il sovrano del Tibet a partire dal XVII secolo,
prima aiutato dai mongoli e poi, a partire dal dal XVIII secolo, protetto dai mancesi (e
questo è importante anche per capire i problemi di oggi).
I berretti rossi invece erano in
realtà tre scuole: Kagyupa, Nyingmapa e Sakyapa. La terza ebbe il suo periodo
di gloria durante la dinastia mongola in Cina, mentre le prime due sono quelle
maggioritarie in Bhutan. Per la precisione un ramo dei Kagyupa, la Drukpa,
divenne predominante nel Regno del Drago Tonante. Il capo spirituale del paese
si chiama Je Khenpo, ma non è scelto come il Dalai Lama, ovvero cercato tra i
bambini nati dopo il decesso del precedente e considerato dunque la nuova
incarnazione. In base alla costituzione del 2008 il Je Khenpo è scelto dal re
su consiglio dei “Cinque Lopen”, ovvero i “Cinque Maestri”. Per secoli, assieme
al Druk Desi (il capo amministrativo), aveva retto il destino del Bhutan, ma
dalla nascita della monarchia nel 1907, il suo ruolo venne considerevolmente
ridimensionato. Come il re, anche il Je Khenpo porta la sciarpa gialla. Ogni
sciarpa in Bhutan ha un significato specifico: per i cittadini senza cariche
particolari è bianca.
Anche lo stile architettonico dei
monasteri è un po’ diverso dal vicino Tibet. In un certo senso maestoso,
imponente anche nei centri più piccoli. Il bianco si lascia spezzare da un
tracciato rosso scuro. Il legno invece, che alleggerisce la solennità, è
colorato nei modi più diversi. Spesso sono fortezze in posti sicuri, che si
innalzano in un paesaggio verde che scende a valle nell’ombra.
Il buddhismo in Bhutan, come quello in
Tibet ed in Mongolia, va oltre la semplicità del buddhismo più antico, ma
travalica sotto molti aspetti lo stesso mahayana, impastando antiche tradizioni
sciamaniche, pratiche magiche e rituali con la vastità della filosofia
buddhista. Si parla di spiriti e divinità protettrici che assumono forme
spaventose negli affreschi all’interno dei suddetti monasteri.
Una cosa poco conosciuta. Anche in
Europa vi è un’antica comunità buddhista tibetana. Sono i calmucchi,
popolazione di origine mongola, che intorno al XVII secolo si spostarono dalle
parti del Mar Caspio.
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