Il poeta e
l’imperatore
Matteo Miele
Università degli Studi di Firenze
Center for Southeast Asian Studies,
Kyoto University
Nel corso dell’insurrezione di Lhasa del
1959 e il dalai lama fuggì in India. L’insurrezione ruppe definitivamente i
precari equilibri politici tra comunisti cinesi e governo tibetano che si
innestavano su un percorso storico più antico e non così semplice nello schema
di equilibri istituzionali e territoriali dell’antico impero.
Le
poesie di un monaco
Nel 1642, il quinto dalai lama
(ricordato dalla storiografia com e “il grande quinto”), la più
importante figura religiosa della Scuola dei berretti gialli, riuscì a
conquistare il potere sul Tibet centro-orientale. La scuola era stata fondata
all’inizio del quindicesimo secolo da un altro grande lama e studioso tibetano,
Tsongkhapa, con l’obiettivo di riformare il sistema monastico. Il titolo di
dalai lama, “maestro oceanico”, è assegnato ad una serie di maestri buddhisti –
l’uno considerato “l’incarnazione” (si prenda tale definizione con tutte le
cautele del caso) dell’altro – a partire da Gendun Drup (1391-1474), un
discepolo di Tsongkhapa e primo dalai lama. In realtà, tale titolo venne
assegnato da un capo mongolo solo al terzo dalai lama, ma fu esteso anche ai
suoi predecessori.
Il quinto dalai lama era riuscito a
salire sul trono grazie all’aiuto di Gush khan, capo dei mongoli khoshuud. Morì
nel 1682 e gli succedette Tsangyang Gyatsho (1683-1706), sesto dalai lama,
straordinario poeta, ma che ai soggetti religiosi o politici preferiva
ispirarsi alla bellezza femminile. Nel 1705, Lazang khan, erede di Gush khan,
giunse (con i suoi soldati) nella capitale, uccise il reggente – ossia il
figlio del quinto dalai lama – ed inviò Tsangyang Gyatsho in Cina. Sul trono
salì un “altro” sesto dalai lama, che era, tra l’altro, il figlio di Lazang
khan. Quest’ultimo, inoltre, si sottomise all’autorità di Pechino. Tsangyang
Gyatsho sarebbe invece deceduto durante il viaggio (anche se esiste una
biografia segreta che racconta di un lungo esilio mongolo). Prima di morire,
Tsangyang Gyatsho aveva indicato in una (bellissima) poesia il luogo in cui
trovare il suo successore, vicino al monastero di Lithang, nel Kham, e lì venne
individuato il settimo dalai lama. Vista la crisi di successione in atto, nonché
alcune sospette aperture ai missionari cristiani – tra di essi Ippolito
Desideri – da parte di Lazang khan, la Scuola gialla, che non aveva mai
disconosciuto la legittimità di Tsangyang Gyatsho, chiese ed ottenne
l’intervento di un altro gruppo mongolo, gli zungari, che entrarono nella
capitale tibetana nel 1717, controllando il paese fino al ristabilimento
dell’ordine da parte dell’imperatore mancese K’ang-hsi nel 1720.
Gli
inglesi
Da lì in avanti, fino all’inizio del
Ventesimo secolo, il Tibet venne considerato formalmente all’interno del sistema
imperiale Ch’ing. Non si deve però confondere il particolare legame tra i dalai
lama e gli imperatori come una formale annessione, né si può considerare il
Tibet dell’epoca come una provincia cinese. In realtà gli stessi han,
erano sottoposti ad un potere straniero, essendo i Ch’ing di etnia mancese. E
stranieri saranno sempre percepiti dalla popolazione. Gli assetti territoriali
si declinavano in uno schema legale e culturale di separazione, profondamente
diverso dalle concezioni proprie del diritto pubblico occidentale. In
particolare, il rapporto tra il dalai lama ed il sovrano mancese era definito
in tibetano “mchod-yon” (pronunciato approssimativamente chö-yön), ossia un
patrono laico (l’imperatore) che protegge un maestro religioso (il dalai lama),
un’istituzione che risaliva al medioevo mongolo. Comunque, questo protettore
laico fallì più volte nell’adempimento del proprio dovere nel corso della
storia tibetana. Il caso più noto fu l’invasione britannica del 1903-1904, la
Spedizione Younghusband, che costrinse il tredicesimo dalai lama a fuggire da
Lhasa e a rifugiarsi in Mongolia. Gli inglesi avevano invaso il Tibet dopo
diversi tentativi di negoziati falliti. Negli ultimi anni del Grande Gioco con
i russi, i britannici avevano trattato con Pechino questioni confinarie e
commerciali rispetto al Tibet. A Lhasa, però, non avevano alcuna intenzione di
rispettare quelle decisioni ed i cinesi non erano in grado di imporre nulla ai
tibetani. Scriveva ad esempio, nel 1894, l’agente politico britannico in
Sikkim, John Claude White: «The Chinese have no authority whatever here. The
Tibetans will not obey them, and the Chinese are afraid to give any orders.
China is suzerain over Tibet only in name» (la lettera di White è riportata in Papers
relating to Tibet. Presented to both Houses of Parliament by Command of his
Majesty, London 1904).
Nel 1907 a San Pietroburgo terminava
però il Grande Gioco con un accordo tra russi ed inglesi sullo status della
Persia (dove venivano definite le rispettive sfere d’influenza),
dell’Afghanistan (che rimaneva protettorato britannico, ma con alcune garanzie
per i russi) e del Tibet, sul quale le due potenze europee riconoscevano l’alta
sovranità di Pechino. Il Paese delle nevi doveva però rimanere pienamente
autonomo sul piano interno.
Dalla
Repubblica alla Repubblica popolare
Erano quelli, però, anche gli ultimi
anni di una dinastia mancese ormai agonizzante, dopo decenni di umilianti sconfitte
con le potenze occidentali ed il Giappone, di sanguinose rivolte e di trattati
ineguali. In quella crisi finale i mancesi tentarono di ridisegnare gli
equilibri interetnici ed istituzionali dell’Impero e di imporre anche
militarmente il proprio ruolo sull’altopiano tibetano. Fu un fallimento ed alla
fine del 1911 i Ch’ing vennero travolti dalla rivoluzione e dall’instaurazione
della Repubblica, proclamata il 1° gennaio 1912. Il mese precedente, la
Mongolia – altro paese buddhista tibetano e guidato dal capo locale della
Scuola gialla (tibetano di nascita) – aveva proclamato l’indipendenza e nel
1913 il tredicesimo dalai lama fece, praticamente, lo stesso. All’inizio di
quell’anno era stato anche firmato un trattato tra la Mongolia ed il Tibet. La
Repubblica cinese continuò a reclamare la propria autorità sui due paesi,
invocando contraddittoriamente una continuità, in senso occidentale, con
antiche istituzioni orientali. Nel 1914, inglesi, cinesi e tibetani negoziarono
a Simla la definizione di un “Tibet esterno”, pienamente autonomo a livello
interno sotto la mera alta sovranità cinese, ed un “Tibet interno” che, sebbene
storicamente e culturalmente tibetano, rientrava sotto il controllo diretto
della Repubblica (questo, come si vedrà, avrà ulteriori conseguenze anche negli
anni Cinquanta). I cinesi non firmarono però il testo finale, mentre gli
inglesi continuarono a riconoscerne i termini fino al 2008.
Le successive crisi interne ed
internazionali della Cina lasciarono il Tibet esterno lontano dalle formali
pretese della Repubblica. Nel 1932 la Manciuria cadeva sotto le armi giapponesi
e veniva proclamato uno stato fantoccio controllato da Tōkyō e con un
imperatore nominale nella persona di P’u-i, l’ultimo imperatore Ch’ing che
aveva perso il trono, ancora bambino, nel 1912. Nel 1937 scoppiò la Seconda
guerra sino-giapponese che sfociò poi nella Seconda guerra mondiale e che
congelò il confronto – fino ad allora tragicamente in atto – tra nazionalisti e
comunisti cinesi. Un confronto che riprese però vigore dopo la capitolazione
dell’Impero nipponico e che terminò nel 1949 con la proclamazione della
Repubblica popolare cinese da parte di Mao e la fuga a Taiwan dei nazionalisti.
Inoltre, nel 1947, l’India aveva ritrovato la propria indipendenza, sebbene
lacerata dalla partizione con il Pakistan, e gli inglesi, i reali protettori
dell’autonomia tibetana, erano ormai lontani. Mao approfittò dei nuovi equilibri
in Asia meridionale per invadere ed occupare il Tibet. La Mongolia esterna era
invece finita nell’orbita bolscevica all’inizio degli anni ’20 e Mao, già
abbastanza isolato a livello internazionale, dovette dunque soprassedere non
potendo certamente (ancora) rompere il legame con l’Unione sovietica.
L’insurrezione
La conquista del Tibet fu lenta e
complessa, ma doveva allarmare le potenze occidentali rispetto ad un’eventuale
avanzata comunista nel Subcontinente indiano, così come la Guerra di Corea,
negli stessi anni, diventava lo spartiacque per la storia politica dell’Asia
orientale. Davanti all’avanzata dell’Esercito popolare di liberazione, nel 1951
un accordo in diciassette punti venne imposto dai cinesi alla delegazione
tibetana. I sigilli furono incisi sul momento e dunque apposti sul documento.
Il dalai lama, il quattordicesimo ed attuale, nato nel 1935 e così appena
adolescente, tentò nei primi anni di gestire la situazione da Lhasa e trovare
un equilibrio politico-istituzionale con il nuovo regime. La situazione
precipitò però con le riforme imposte nella seconda metà degli anni ’50, in
particolare nelle aree tibetane dell’Amdo – regione natale del dalai lama – e
del Kham orientale, fuori da quel Tibet esterno e che non godevano dunque,
secondo il nuovo assetto, di alcuna flebile autonomia garantita al Governo
tibetano a Lhasa. All’inizio di marzo del 1959 il dalai lama venne invitato ad
assistere ad uno spettacolo presso una base militare cinese. Lo spettacolo
venne fissato per il 10 marzo. Trapelata la notizia, quel giorno, la
popolazione della capitale, assieme a molti tibetani giunti nelle settimane
precedenti anche dalle succitate regioni per festeggiare il capodanno tibetano
(lo-gsar), insorse contro gli occupanti temendo per la vita del dalai
lama. Nei giorni seguenti il dalai lama, che pure aveva provato nuovamente a
mediare per evitare la successiva strage dei manifestanti, fuggì in India, dove
ancora oggi risiede e dove ha guidato, fino a pochi anni fa, l’Autorità
centrale tibetana, spesso conosciuta come Governo tibetano in esilio. Il Tibet
esterno venne inglobato all’interno della Repubblica popolare, pur definendolo,
a partire dal 1965, “regione autonoma”.
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